Un Processo Millenario
La cucina amalfitana è un cocktail irripetibile di ingredienti unici le cui basi furono assemblate più di duemila anni fa nelle ville romane distribuite lungo la costa. Con il passare dei secoli Longobardi, Arabi, Angioini, Spagnoli, Borboni… ed infine: “l’arte di arrangiarsi”, hanno contribuito a perfezionarla, amplificando la rosa dei sapori e delle preparazioni …
In epoca preistorica l’area amalfitana era una terra lussureggiante, ricoperta di foreste e ricca di acqua, frequentata in modo saltuario da gruppi di cacciatori nomadi che lasciarono tracce del loro passaggio nella Grotta “La Porta” di Positano, dove sono stati ritrovati resti di molluschi marini e ossa di capre selvatiche, forse caprioli, e nella Grotta delle Felci a Capri. A quell’epoca Capri non era un’isola ma era parte integrante della Penisola Sorrentina.
Nei secoli a venire equipaggi greci e, forse anche fenici, iniziarono a fare scalo lungo la costa per rifornirsi di acqua e per cacciare. Nelle zone interne erano stanziate popolazioni Osco-Etrusche. Un insediamento sorgeva alla foce del fiume Irno, dove oggi c’è il rione Fratte, nella periferia nord-orientale di Salerno; a Marcina, l’odierna Vietri sul Mare che, secondo Strabone (Geografia), fu la città più antica della Costiera Amalfitana e, probabilmente, a Maiori, in località San Pietro.
Tra l’VIII e il VII secolo a.C. un gruppo di greci, originari dall’isola di Eubea, si stabilì tra l’isola d’Ischia, da loro battezzata Pithecusa, e Kyme, Cuma. Ebbe così inizio un flusso migratorio di coloni provenienti da varie parti della Grecia, che in Italia Meridionale realizzarono la “Magna Grecia”. Lungo le coste più prossime alla Penisola Sorrentina vennero fondate le città di Dikaiarcheia Pozzuoli, Parthenope Napoli, Syrentum Sorrento, Paestum, Elea Ascea, Pixunte Bussento e Palinuro. In questi nuovi insediamenti i Greci mantennero lo stile di vita della loro terra natale, le loro abitudini alimentari e impiantarono nuove colture.
I greci introdussero la vite e l’olivo (in alcune zone della Calabria e della Puglia vivono ancora esemplari di olivi piantati da quei coloni), il sistema di coltivazione a terrazza e la loro dieta, basata essenzialmente sulla raccolta di bacche e tuberi selvatici, la panificazione del farro e l’allevamento di suini e capre. Con il latte di queste ultime si ottenevano squisiti formaggi e, in occasione dei riti tributati a Cerere, si preparavano delle focacce di farro che venivano condite con formaggio fresco disposto su foglie di mirto: forse l’antenato della “ricotte di fuscella”. La carne era appannaggio di nobili e guerrieri, oppure veniva consumata in occasione di sacrifici e di feste in onore degli dei.
Tra il IV e il III secolo a.C. la Campania venne conquistata dai Romani i quali rimasero talmente affascinati dalla (superiore) cultura greca, che finirono con il “grecizzarsi”. Nella Campania Felix, così fu battezzata la regione in riferimento alla sua fertilità e ricchezza, si vestiva alla greca, erano greci il teatro e la filosofia, la lingua, e addirittura gli dei… ma, soprattutto, erano greci il cibo e il vino e le residenze dei ricchi romani.
Nel I secolo, seguendo l’esempio dell’imperatore Tiberio, che si era trasferito a Capri con l’intera corte (si era fatto costruire dodici ville, una per ogni mese dell’anno), i potenti dell’impero iniziarono a edificare delle lussuose ville “marittimae” lungo il litorale campano. Dette ville erano dotate di approdo marittimo, di imponenti porticati, di terme, di giardini e di ninfei ed erano ornate di mosaici, affreschi e sculture. Si trattava di vere e proprie oasi di pace, dedicate agli otia del proprietario, intendendo con questo termine l’attività culturale ma anche ludica e viziosa con cui i romani più potenti e raffinati amavano trascorrere i periodi di lontananza dalle incombenze pubbliche o professionali. Dette ville avevano delle dependance nelle quali si svolgeva attività agricola e produttiva, grandi frutteti e campi pertinenziali e vasche per l’allevamento del pesce, cui attendevano tutto l’anno schiavi e lavoratori, diretti dal villico, un fiduciario del padrone della villa, il più delle volte un liberto o uno schiavo familiarizzato. Questo aspetto produttivo accomunava le ville marittime alle ville rustiche, che sorgevano nell’entroterra e nelle aree agricole, che però erano vere e proprie aziende agricole, dall’architettura essenziale Nell’area amalfitana sono state ritrovate ville rustiche ad Agerola, a Sant’Egidio del Monte Albino e a Tramonti. Sfarzose ville marittime, invece, furono edificate a Sorrento, sulle isole de Li Galli e sullo scoglio di Isca, a Positano, ad Amalfi, a Minori, a Maiori e a Marina di Vietri, dove c’erano delle rinomate terme in parte ancora visibili in via Pellegrino 142.
Ma cosa mangiavano i Romani?
i fondamenti della loro cucina sono raccolti in trattati e ricettari, quali ad esempio il Re Coquinaria di Apicio o le Satire di Orazio (nella prima Satira egli descrive il suo ritorno a casa per consumare «… porri et ciceris laganique catinum…» ovvero “una scodella di porri, ceci e lagane”), oppure tramandati a voce di padre in figlio, che la perpetuarono sotto forma di tradizione gastronomica.
In epoca romana si coltivavano le zucche, di tutte le forme e qualità, cipolle, agli e tanta frutta, quali mele, pere, fichi, noci, melograni, mandorle e susine, sui cui fusti venivano allevate le viti.
Tra le varietà di mele erano particolarmente apprezzate le mele cotogne, oggi quasi completamente scomparse, e le “tubiole” o “turione”, delle quali resistono alcune piante tra Agerola, Scala e Tramonti dove i loro frutti sono ricercatissimi dai buongustai che amano consumarle, secondo la vecchia maniera romana, fritte a tondelli in olio bollente con una pastella di farina ed uovo e spolverate di zucchero e cannella. Anche le pere erano gradite, specie quelle della varietà “pennata” che oggi, trasformate in marmellata, accompagnano in modo egregio il “Provolone del Monaco”.
In epoca greco-romana si allevavano numerosi vitigni quali: Greco, Aglianico (Hellanico), Fiano, Asprinio, Cecubo e Falanghina (poichè disposto a mò di falange militare) dai quali si ottenevano il “vino latino”, venduto in locande ed osterie, ed il pregiato “vino greco” “bono, claro et traficato”, che si serviva, allungato con acqua, o con miele o perfino con acqua di mare, durante i banchetti nelle ville e in occasione di ricorrenze religiose. Il principe dei vini però era il Falerno, ottenuto da un vitigno che ancora oggi non si è riusciti bene ad identificare. Il Falerno era talmente pregiato che un’anfora di quel vino arrivò ad essere scambiata con uno schiavo cosicché, nell’89 a.C., si rese necessario un editto per calmierarne il prezzo. A Pompei, la Las Vegas dell’antichità, leader dei traffici fu Caedicia Vietrix, una donna imprenditrice la cui sigla era impressa su gran parte delle anfore recuperate nei relitti di navi romane affondate qua e la nel mediterraneo. A Paestum, infine, si produceva un esclusivo “vino di rose”, ottenuto aggiungendo petali di “rosa di Paestum” al mosto, che veniva lasciato fermentare per un mese intero.
Nell’area amalfitana sono sopravvissute cultivar (varietà) oggi classificate autoctone, quali: Biancazita (Falanghina), Bianca Tenera (Biancolella), Per’e Palummo, Tintore, Fenile, Ginestra, Tronto, Pepella, San Nicola… dai quali si ottiene il vino DOC Costa d’Amalfi.
Parte delle uve però non finiva vinificata, bensì veniva consumata a tavola. Tra le varietà giunte fino a noi le uve Moscadellone, l’Uva Fragola, la Malaga e l’uva Sanginella o “Cornicella”, cosiddetta dai chicchi allungati a forma di cornetto, oggi assai ricercata per la conservazione sotto spirito. A quell’epoca era molto amata l’uva passita, che veniva conservata nei caratteristici “follovielli” – dal latino folium volvere – un cartoccio di foglie di limone chiuso con un giunco o una ginestra. Ancora oggi i follovielli, insieme alle trecce di agli e cipolle, alle zucche secche, ai piennoli di pomodorini ad ai peperoncini, infilati uno ad uno a formare lunghe “scette” (file) scarlatte, adornano i balconi delle case della Costa.
Si allevava diverse varietà di olive tra le quali primeggiano la Rotondella e la Moraiola dalle quali si estrae un olio pregiatissimo, tutelato dai marchi DOP Olio delle Colline Salernitane o Olio dei Colli di Sorrento. Caratteristica essenziale di quest’olio è la spremitura a freddo delle olive che, appena colte, venivano private del nocciolo e quindi avviate al frantoio. Altra parte delle olive, come ancora oggi si usa, veniva salata e poi conservata sott’olio in vasi di terracotta, per essere consumata durante l’inverno. (Una curiosità: in alcune zone dell’Italia Meridionale ancora fruttificano alcuni esemplari degli olivi piantati quasi tremila anni fa dai coloni greci).
Apprezzatissime poi, quale simbolo di opulenza e buon augurio, si coltivavano le noci, che venivano dispensate dagli sposi agli ospiti del banchetto nuziale e dalla cui pianta si era ricavata la legna per fabbricare il talamo nuziale.
Si coltivavano i cereali – segale, frumento ed in particolare il farro – ed i legumi – fave, fagioli, cicerchie e ceci – che venivano entrambi consumati sotto forma di zuppe, oppure ridotti in farina impiegata per panificare o per preparare la “zuppa di farro caseata”, una zuppa fatta con la farina di farro e la ricotta, sicura progenitrice degli ‘ndunderi, piatto tipico di Minori.. Il pane era molto diverso da quello che conosciamo oggi, somigliava piuttosto ad una focaccia che, condita con lardo e rosmarino, forniva il pane et condimentum, alimento di contadini e braccianti agricoli, rimasto in uso fino al basso medioevo. Il pane “bianco” era appannaggio dei nobili e dell’imperatore. John Steinbeck racconta che «…quando l’imperatore Tiberio si trasferì a Capri, perché a Roma era odiato, non si fidava di nessuno. Aveva paura che tutti cercassero di avvelenarlo, e forse aveva ragione. Non voleva pane fatto con la farina del posto, cosicché la sua trireme si spingeva lungo la costa di Positano, e gli portava la farina di un mulino che è ancora in piedi sul fianco della collina». Nella realtà storica il mulino era quello che sorgeva sulla spiaggia di Arienzo, ed il mugnaio, di nome Arienzo, era un liberto dell’imperatore. L’episodio è interessante, poiché attesta l’antica tradizione molitoria di Positano.